L’ineluttabile discesa. I sette piani di Dino Buzzati

Scritto nel 1939, il racconto Sette piani di Buzzati è senza dubbio tra le narrazioni più emblematiche e rappresentative della poetica dello scrittore bellunese. Successivamente il testo confluì nella raccolta Sessanta racconti, che nel 1958 valse all’autore il Premio Strega, e poi ne La boutique del mistero (1968). 
Buzzati è uno dei maestri dell’assurdo e del fantastico italiano e si può inserire, senza sfigurare, tra nomi di scrittori autorevoli come Kafka, Beckett, Poe e molti altri che hanno indagato non solo il destino dell’uomo, ma il suo relazionarsi con la paradossalità e la mancanza di senso della realtà. Il deserto dei Tartari, Il colombre, I sette messaggeri: questi sono solo alcuni dei titoli che permettono al loro autore di appartenere di diritto all’olimpo dei più grandi del novecento.
Per tornare al testo in questione, Sette piani narra la vicenda dell’avvocato Giuseppe Corte, che si fa ricoverare in una clinica di prim’ordine a causa di una «leggerissima forma incipiente» di una malattia non meglio specificata, per la quale vengono offerte le migliori cure. I sette piani in cui è diviso l’ospedale denotano la gravità della malattia: al settimo chi si trova nella situazione del Corte, al primo chi non ha più speranze, in una discesa graduale alla quale corrisponde un aumento delle capacità di cura. La catabasi del protagonista è accompagnata da eventi su cui non ha mai un reale controllo, ma che appaiono concreti e frustranti. La discesa viene presentata come lenta ma inesorabile, da un apparente Purgatorio attraverso un Inferno sempre più tetro e inquietante, cambiamento testimoniato anche dal mobilio che arreda le stanze nei diversi piani. All’inizio:

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante. (D. Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori, Milano, 2020, p. 23).

     Mentre al secondo piano:

Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni, né uno di più, né uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. (p. 36)

     La clinica si presenta come una enorme macchina burocratica che si impegna a classificare con costanza tutti i ricoverati in base a parametri espliciti e tuttavia vaghi e arbitrari. La suddivisione «garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti» (p. 23), ma da subito viene resa nota la vera natura del luogo, poiché «i malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. […] Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette caste progressive» (p. 24). Al tempo della stesura, gli ospedali cominciavano ad assumere quella struttura che in parte ancora oggi perdura: divisiva, categorizzante, eccessivamente legata ad una lenta e caotica burocrazia. Buzzati unisce a questa realtà contemporanea un viaggio individuale, che è quello dell’uomo in quanto esistente rispetto alla vita. Il percorso che Giuseppe Corte – rappresentante del genere umano – compie è guidato da scelte, necessità e imprevisti che lo conducono in maniera graduale ma inarrestabile, come la sua malattia, ad una morte inattesa, con le tapparelle della camera che si chiudono e con la luce che svanisce dopo un percorso fatto di travagli. 
A rendere tutto ancora più assurdo è la consapevolezza (o convinzione?) di non appartenere ai piani in cui man mano si trova scendere e la rivendicazione del proprio stato di persona sana appartenente al settimo piano di diritto. Se il passaggio dall’ultimo piano al sesto è «assolutamente provvisorio», da subito il Corte lo vede come «di cattivo augurio» e questo rimane il continuo presentimento per tutta la durata del racconto. Il punto di svolta, il crollo delle illusioni se così si può dire, avviene al quarto piano. Il protagonista si trova lì per curare un eczema con dei raggi digamma, soluzione che risulta poi poco efficace. I colloqui informali col dottore del piano sono quotidiani e vanno a finire sempre sulla malattia; quest’ultimo, ottimista sulla guarigione del paziente, gli dice in confidenza che potrebbe al più presto risalire una volta riassorbito l’eritema.

Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo. “Al settimo, al settimo!.” esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settimo piano – mi scusi la brutale sincerità – c’è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!”
“E allora, allora” fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, “lei a che piano mi metterebbe?

“Oh, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana.”
“Va bene” insistette Corte “ma pressapoco lei saprà.”
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento
in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: “Oh Dio, proprio per accontentarla, ecco, ma potremmo in fondo metterla al sesto!” (p. 34)

     Da notare il “legittimamente” a inizio citazione, che contrasta con quanto i medici e le analisi testimoniano. La legittimazione appartiene al sistema, non a chi ne è coinvolto in quanto paziente; i parametri sono lasciati agli specialisti e la decisione finale, benché ci si possa convincere del contrario, non sembra essere a discrezione di chi è direttamente interessato. Il sistema comanda, ma lo fa alla maniera di Buzzati, in modo criptico, enigmatico e frustrante, svelandosi attraverso figure abbozzate e funzionali. Come accade anche in Questioni ospedaliere, racconto breve della stessa raccolta, c’è un sistema alle spalle, un ordine che tutti gli apparati dell’ospedale rispettano ciecamente e che porta all’indifferenza verso il problema in sé, una ragazza morente, e tende a preservare la propria struttura.
Per tornare al discorso principale, la svolta avviene poiché per la prima volta a Giuseppe Corte viene negato il settimo piano. Se fino ad allora si era sentito parte della vetta dell’ospedale che, per considerazione generale, era ancora legata al consorzio umano, a questo punto, dopo essere finito in basso per errori e necessità esterne alla sua malattia (nelle sue convinzioni), nemmeno l’unica speranza che resisteva a tutte le imprevedibili sventure ne regge più il peso. È il passaggio in cui anche comincia a venir meno ogni forza di opporsi, almeno fin quando il protagonista non viene trasferito per un altro errore burocratico al primo piano, momento in cui subentra la follia:

Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio dei medici, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno. (p. 37)

     In questo punto finiscono tutti i presentimenti, ogni minimo dubbio crolla e tutto diventa realtà: l’uomo che si ritiene sano viene condotto al piano più in basso, nel punto più abissale dell’Inferno ospedaliero e le tapparelle vengono abbassate. Giuseppe Corte muore come è vissuto, nella più totale impotenza; non può opporsi al corpo che si irrigidisce così come non può distogliere gli infermieri dal togliergli la luce. Con modalità affini a quelle di Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari, il protagonista muore dopo aver vissuto un’ossessione, che nel suo caso è quella di guarire e ricominciare l’ascesa verso un Paradiso sempre promesso, ma irraggiungibile. 
L’ossessione si lega senza dubbio a una delle tematiche più celebri e meglio sviscerate da Buzzati: l’attesa. Questa è lo stigma dei suoi personaggi più famosi: il protagonista de I sette messaggeri, Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari, Stefano Roi de Il colombre, la giovane di Ragazza che precipita e molti altri. L’attesa logora, promette ricompense lontane e non smette mai di farlo, tiene ingabbiati in una condizione di speranza disperata, cieca e annichilente. Buzzati racconta la storia dell’uomo moderno di fronte all’ineluttabilità della propria condizione: egli nasce condannato e senza via di scampo, si illude fin quando l’evidenza non lo abbatte e poi si illude di nuovo; attende quanto la sua esistenza permette per ritrovarsi con nulla in mano, se non la consapevolezza di aver compiuto una lotta titanica in cui la sconfitta è condizione necessaria per giocare la partita. In tal senso il richiamo non può che andare allo Josef K. de Il processo di Kafka. Sin dalle prime battute egli è “colpevole”, è in perenne arresto senza però dover mutare le proprie abitudini di vita, si trova ad avere a che fare con giudici, funzionari (beamte), avvocati e altri personaggi che non fanno altro che rendere il suo processo più ambiguo senza offrire soluzioni. Alla fine la morte si presenta di notte, in un paese senza luci e con le tapparelle abbassate ai confini del quale, in una cava di pietra, viene compiuto il delitto di K. in pieno stile sacrificale, molto vicino a quello animale della tradizione ebraica. Sia K. che Corte non hanno scampo, sono vittima e preda di un sistema enigmatico e impenetrabile, così come lo è il castello dell’omonimo romanzo kafkiano e la legge della parabola de Il processo. Buzzati rifiutò sempre la derivazione quasi filiale con Kafka che gli veniva attribuita, non perché non lo apprezzasse, quanto piuttosto perché l’accostamento negava i meriti dell’italiano, molto più che un semplice imitatore. Il suo stile è inconfondibile, per quanto rimanga innegabile una certa affinità col praghese.
L’ambiguità della clinica si lega, come detto, alla freddezza burocratica che rende impotente il paziente e lo avviluppa in un impalpabile senso di angoscia, che si esplicita in un continuo presentimento negativo, quasi di rovina incombente. Buzzati rende chiara la percezione che il protagonista ha di tale ambiguità attraverso una serie di coppie di sostantivo più aggettivo che sintetizzano in maniera perfetta la situazione di ogni momento.
Per cominciare, dopo la descrizione positiva del luogo, la prima rottura avviene con la scoperta della «strana caratteristica» (p. 24) dell’ospedale che consiste nella sua suddivisione in sette caste; quando viene a conoscenza della situazione dei malati del primo piano, dall’alto del settimo, il Corte fissa le tapparelle con «morbosa intensità» (p. 25) quasi fosse attirato verso il basso da una vertigine. Il passaggio al quinto piano per un riordinamento dei malati è accolto come una «amara sorpresa» (p. 29), poiché invece di risalire come avrebbe dovuto, scende ancora, cominciando a temere la vicinanza con quello che è il cuore dell’ospedale e la conferma giunge quando, in un dialogo col dottore del piano, ha il «vago presentimento» (p. 31) che dovrà scendere ancora per essere curato meglio. Quando il terzo piano va in vacanza, Giuseppe Corte è costretto a scendere al secondo, sentendo sulle spalle tutta l’impotenza che lo avvolge e, inconsciamente, l’arrivo della fine, avvertito da un «misterioso istinto» (p. 35) che si traduce in una «crudele paura» (p. 35). E così, quando un errore burocratico lo costringe a scendere nell’abisso infernale, giunge a quella che è definita «ultima stazione» (p. 37), capendo, senza ammetterlo, di essere arrivato al capolinea della propria esistenza senza poter fare nulla al riguardo. 
Ad aumentare la percezione dell’ingiustizia subita contribuisce l’assenza di un vero colpevole. A dominare il sistema ospedaliero, se anche si riconosce a capo il professor Dati, è il sistema stesso con tutte le sue contraddizioni e forzature. I funzionari (infermieri, dottori ecc) sono solo pedine che agiscono in funzione del mantenimento dell’ordine. Chi entra come paziente subirà un percorso discendente inevitabile e sarà sempre in balia di un destino contro il quale può poco e niente. L’uomo entra in un sistema con la speranza di andare sempre più in alto e mentre spera non può far altro che discendere, senza tuttavia smettere di illudersi che un giorno gli si apriranno le porte del Paradiso, una promessa che rimane sempre tale ma che non arriva mai. 

“Siamo pronti per il trasloco?” domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
“Che trasloco?” domandò con voce stentata Giuseppe Corte “che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?”
“Che terzo piano?” disse il capo-infermiere come se non capisse “io ho avuto l’ordine di condurla al primo, guardi qua.” e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati. […] Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c’era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c’era un’insopportabile confusione, lui veniva tenuto all’oscuro di tutto… Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. “Purtroppo però” aggiunse il medico “purtroppo il professor Dati proprio un’ora fa è partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. (pp. 36-37)

     Da questo estratto si potrebbe davvero pensare ad una responsabilità totale del Dati, eppure Buzzati non è mai così scontato. Se si riprende in mano il già citato racconto Questioni ospedaliere, si noterà come anche in quel caso sono molti i personaggi che indirizzano in parti diverse il protagonista appellandosi a regole che vengono da un sistema, ma che sembrano scese dal cielo come i Dieci Comandamenti e a cui nessuno si oppone anche di fronte alla morte imminente della ragazza tenuta in braccio. Il bellunese ha sempre qualcosa di metafisico nel concetto di destino umano, che si lega però alla solidità di strutture come la fortezza del Deserto e gli ospedali, o a oggetti concreti che rimandano al quotidiano come la goccia dell’omonimo racconto e le collinette de Le gobbe nel giardino.
Molte analisi e recensioni si soffermano sul tono surreale de I sette piani, che è innegabile, eppure troppo spesso viene tralasciata la consistenza e la solidità su cui poggia la narrativa di Buzzati – che non va ad escludere ipotesi surreali. L’uomo si trova nella situazione in cui vive non solo perché una forza misteriosa comanda tutto, ma anche perché le proprie strutture e istituzioni non fanno altro che assecondare un percorso che tende alla sconfitta: i Tartari arrivano, ma alla fine della vita alienata di Drogo; il colombre si svela, ma non per uccidere Roi come tutti pensavano; il cane che ha visto Dio muore ma la sua immagine continua a spaventare e sottomettere la popolazione del paese. Se infatti il destino è ineluttabile e impalpabile, questo si presenta con figure reali e quotidiane.
Inoltre, c’è anche un lato metaforico da tenere in considerazione. L’uomo moderno viene catapultato nella vita e nella società, conosce le sue regole e all’inizio pensa di non appartenere a ciò che lo circonda, benché i fatti parlino diversamente. Il settimo piano, quel Purgatorio che sa di libertà, dura ben poco e la discesa dell’uomo comincia, lo annichilisce lentamente e senza che se ne renda conto perché crede ancora che il settimo piano gli appartenga. Giunto a buon punto della catabasi, è equidistante dalla cima e dal fondo e comincia a rendersi conto del suo destino, senza tuttavia farci i conti. Subentra la disillusione, perché anche da fuori arrivano notizie sull’improbabilità di tornare sulla vetta, ma la speranza e la convinzione perdurano fin quando la morte non coglie inattesa e non voluta.
L’uomo di Buzzati è vittima della propria speranza, che lo porta ad attendere una ricompensa per tutta la vita e a rendersi conto solo alla fine che non esiste un premio, che la beffa è solo la conclusione di un destino rispetto al quale si può davvero poco. L’ossessione si traduce in disperazione crescente per uno stato di impotenza via via più palese, per la mancanza di controllo sulla propria situazione. 
In conclusione, I sette piani è un testo fondamentale se si vuole comprendere la poetica e il pensiero buzzatiano, poiché ripercorre tutte le tematiche dello scrittore nelle forme più tipiche: attesa, ossessione, destino ineluttabile, prigionia, assurdità dell’esistenza, male metafisico che si esprime nel concreto, alienazione.

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