Nella Russia di Putin

Avevo scritto un editoriale per oggi. Lungo, elaborato, dai toni accesi. Poi l’ho riletto, e più lo rileggevo meno mi convinceva. Perché la costante sensazione di soffocamento degli ultimi giorni avvelena tutto, anche la scrittura in cui di solito mi rifugio. Avevo scritto della nostra inettitudine, della nostra non conoscenza della guerra e dei suoi orrori, della nostra abitudine a vivere tranquilli ignari di quello che succede a qualche migliaio di chilometri da noi. E anche della necessità di diventare pompieri invece che incendiari, per spegnere quelle fiamme che stanno bruciando il nostro futuro alle porte dell’Europa.

Ma a che pro? L’impressione è che ogni parola sia vuota, superflua, scontata, inopportuna, non richiesta e non gradita. E forse non è solo un’impressione, forse è davvero così. Allora, invece di parlare, riciclo quanto detto da Michela Murgia sui suoi account social (https://www.facebook.com/kelledda/posts/508597030622404):

«Io non so cos’è la guerra. Come tutte le persone cresciute in tempo di pace, l’ho vista solo alla televisione, dove ciò che è vero e ciò che è reale non sono quasi mai la stessa cosa. Quello che sta avvenendo in Ucraina mi lascia dunque incredula e oppressa da un senso di totale impotenza, perché non c’è niente che possa dire o fare per influire su un evento di questa dimensione. Davanti a questa catastrofe – chi può prevederne le conseguenze? – la tentazione sarebbe quella di congelare il futuro e restare incollata tutto il giorno ai notiziari, nutrendo l’ansia e declassando il resto a inezia, che sia leggere un libro, incontrare qualcuno a cena e persino preoccuparsi degli effetti di una cura. Si può continuare a vivere mentre bombardano Kiev? Ha senso oggi fare cose come raccogliere materiale per la rassegna sessista di domenica, festeggiare una traduzione estera o andare al cinema? Forse no, ma se invece lo avesse? Anche al di là del fatto che paralizzare la mia quotidianità non fermerà i colpi di mortaio, c’è una cosa che non voglio dimenticare: la vita che consideriamo normale è tale solo perché siamo in una democrazia. Nella Russia di Putin io non potrei esercitare dissenso contro la discriminazione delle donne sulla libera stampa, perché lì non esiste il diritto al dissenso, né la libera stampa. Nella Russia di Putin non potrei scrivere in un libro le cose che scrivo qui. Se andassi al cinema, non potrei mai vedere i film che vedo qui, perché le arti nei regimi sono sottoposte a censura. Se è quindi vero che non posso fermare la guerra in Ucraina, è vero altrettanto che posso manutenere le possibilità che mi offre la democrazia in cui vivo. Possiamo farlo tuttə. Leggete. Ridete. Guardate film. Andate alle feste di compleanno senza sentirvi in colpa. Agire la libertà che abbiamo è il solo modo per ricordarci quanto poco sia scontata ed è anche la migliore critica che possiamo fare a chi – come Salvini e Meloni – ha cercato di farci credere che i paesi dove quella libertà veniva soffocata potessero essere un modello per noi. A cosa porti quel modello ora si vede benissimo».

Perché siamo dei privilegiati, ma in questo non c’è né merito né colpa. E non possiamo smettere di vivere, anzi, dobbiamo continuare a cogliere e forse esasperare le possibilità che noi abbiamo e che a qualcun altro sono negate. Ci vuole consapevolezza, tutto qui. Non c’è purtroppo molto altro da fare.

Per quanto mi riguarda, credo nell’informazione, e quindi nelle ultime 48, 72, 96 ore mi sono tenuta aggiornata quanto ho potuto, talvolta ricondividendo le notizie reperite, anche per celebrare la libertà di stampa che è appunto uno dei nostri tanti privilegi. E sono andata al Campidoglio, con il cane al guinzaglio e una candela accesa nell’altra mano, per mostrare solidarietà al popolo ucraino – tenace, dignitoso, che quasi mette soggezione – e per chiedere che nel 2022 la guerra smetta definitivamente di essere un’opzione. Con un soffio di vitalità nel cuore e la gratitudine nei confronti di un Paese che mi consente di stare in piazza a viso scoperto e a testa alta, senza la paura di finire per questo dietro alle sbarre.

In foto, la fiaccolata di venerdì 25 febbraio dal Campidoglio al Colosseo, promossa dal sindaco di Roma, dai presidenti dei municipi e dal presidente della Regione Lazio.

di Collins

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