How to get away with an anonymous: Elena Ferrante e L’amica geniale

La nube mediatica che circonda questo pseudonimo non è riuscita a trattenere il successo della saga L’amica geniale, esploso anche grazie alla serie televisiva di produzione RAI. È facile liquidare Ferrante etichettandola come “letteratura di consumo” solo perché ha venduto molte copie rimanendo in testa alle classifiche per settimane. È vero che molti libri in testa alle classifiche sono ad oggi di bassa qualità, ma questo non vuol dire che valga per tutti. Certamente è leggibile e scorrevole, si adatta alle nuove esigenze del pubblico poco paziente, abituato ai film e alle serie televisive; poche le digressioni e le descrizioni, tutto si fonda su una sorta di inesorabile stream of consciousness della protagonista, che è l’unico punto di vista delle situazioni raccontate, una sorta di cannocchiale che guida il lettore decidendo per lui dove guardare. Tuttavia, non può essere questo un punto a favore per bollare la tetralogia come “letteratura di consumo”, espressione con la quale mi trovo in disaccordo, poiché la risposta del pubblico è troppo chiara. Indaghiamo più da vicino il testo allora, cercando di lasciarlo parlare da sé, visto il mistero che aleggia sull’autore, sul quale torneremo. Travolgente è l’amicizia che lega le due protagoniste, Elena Greco e Raffaella (Lina/Lila) Cerullo. Non è semplice descrivere il legame che le unisce. Sembra che i due personaggi partano da stesse basi, un mix di povertà e intelligenza, ma la cruda realtà della vita biforca le loro strade. La vita di Elena la spinge spesso a riflettere e a immaginare come sarebbe stata la vita della sua amica se le fosse toccato ciò che è toccato a lei, che uso avrebbe fatto della sua fortuna. Proprio quest’ultima gioca un ruolo fondamentale nel loro rapporto: in vari momenti della vita ognuna sembra essere più aiutata dal fato rispetto all’altra: quando a Elena viene permesso di continuare a studiare, quando Lila si sposa appena quindicenne e diventa molto ricca, quando a turno ottengono l’attenzione del ragazzo conteso. Vorrei soffermarmi sulla capacità di Ferrante di far emergere la parte brutta di ogni relazione d’amicizia: l’invidia, quella cattiva e immorale, che c’è anche nei rapporti più sani. È come se legittimasse la presenza dell’invidia nel rapporto perché aiuta la crescita e rappresenta verosimilmente gli alti e i bassi che solo un’amicizia duratura può avere, in modo molto realistico. Sono sicuramente personaggi su cui pesano gli eventi della vita: le bambole sono le gonfaloniere del loro rapporto, oggetti che subiscono gli effetti di quello che qualcun altro decide per loro e che agiscono di conseguenza, sempre guidate dalla mano dell’altra. La caduta delle bambole nello scantinato rappresenta l’inghiottimento delle ragazze nella società rionale, dalla quale riusciranno ad uscire realmente solo alla fine della loro vita: Lila non a caso invia le bambole a Elena quando fugge dal rione. In un certo senso le stesse bambole sono collegate a Didone, l’abbandonata, la suicida per amore che ha accompagnato le due ragazze diventando l’emblema della loro concezione dell’amore. Ognuna delle due protagoniste entrerà magistralmente nel ruolo della regina, rivoltando però la situazione: entrambe lasceranno il marito.

Un tratto caratterizzante della scrittura è il far emergere sempre l’oscurità in ogni atto, la descrizione di sentimenti e azioni deplorevoli con una sorta di distacco che le rende accettabili. Come scrive Ferrante in La Frantumaglia (Edizioni e/o, 2016), la violenza si manifesta in due forme: «come violenza pura e semplice, grezza, sanguinaria. Ma anche come bonaria ironia degli uomini colti che minimizzano le nostre conquiste e le degradano». La violenza sembra essere l’unità di misura del rione: il mezzo tramite il quale si ottengono favori, potere e soldi. Questa violenza agisce dove crescono l’ignoranza e l’analfabetismo; ricordiamo infatti come neanche Lila, intelligentissima, riesce ad allontanarsi definitivamente dal rione per colpa della mancanza d’istruzione. Gli abitanti, quindi, non possono che essere definiti una plebe dominata dall’ignoranza e dalla paura del più forte, e la prima a chiamarli così è la maestra Oliviero, la più istruita, anche se pure lei ne fa parte, e alla fine si comporta come loro decidendo di rifiutare Lila per colpa delle privazioni della sua famiglia (probabilmente per una sorta di autosconfitta?).

«Cos’era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l’aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. La plebe era mia madre, che aveva bevuto e ora si lasciava andare con la schiena contro la spalla di mio padre, serio, e rideva a bocca spalancata per le allusioni sessuali del commerciante di metalli. Ridevano tutti, anche Lila, con l’aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo.» (L’amica geniale, p. 326) Non a caso per rappresentare la plebe Ferrante utilizza il dialetto, mezzo di comunicazione degli analfabeti, ma proprio in dialetto scrive spesso solo gli insulti, espressione massima della violenza. Una plebe dalla quale emergono le personalità delle due protagoniste, Elena e Lila, le uniche che provano a resistere alla forza centripeta del rione, venendone comunque travolte.

Un altro tema collegato alla violenza è il rapporto uomo-donna e la mascolinità tossica che accompagna la tetralogia. Andando a stringere, di uomini buoni non ce ne sono a parte Enzo Scanno. La società implica delle regole di convivenza (in)civile che riducono le donne a schiave della maternità e gli uomini a schiavi della virilità. Ponendo l’attenzione su questi due punti, è come se, per una specie di contrappasso, l’emblema estremizzato di ogni sesso diventi il carnefice dello stesso. L’uomo comanda, ingravida e picchia, e se non lo fa non è uomo – scena perfettamente rappresentata quando il padre di Lenù è costretto a picchiarla per volere della madre, che lo ammonisce urlando «Che uomo sei» – mentre la donna è madre e angelo disumano del focolaio, nonostante i figli la distruggano fisicamente e mentalmente essa non può dirsi femmina senza quelli. Lila tenterà di uscire da questo circolo vizioso, ribellandosi al marito, rifiutando la maternità e quasi benedicendo l’aborto spontaneo, e tentando di deragliare il percorso del figlio educandolo in modo “moderno”, anche se alla fine neanche lui sarà sottratto dalle leggi del rione. Il matrimonio di Lila è appunto uno degli esempi più eclatanti di come i personaggi siano costretti a seguire queste regole di convivenza: Stefano non vorrebbe picchiare la moglie, ma sa che se non lo facesse sarebbe ostracizzato dalla comunità. Al contempo le donne subiscono e, in una sorta di muto accordo, chiudono un occhio sulla violenza domestica, giustificandola.

«Durante il pranzo per il fidanzamento di suo fratello e Pinuccia aveva usato, nel dire quella bugia, un tono ironico e tutti le avevano ironicamente creduto, specialmente le femmine, che sapevano da sempre cosa bisognava dire quando i maschi che volevano loro bene e a cui volevano bene picchiavano sodo. Per di più non c’era persona del rione, specialmente di sesso femminile, che non pensasse che lei avesse bisogno da tempo di una bella lisciata. Perciò le botte non avevano fatto scandalo e anzi intorno a Stefano erano cresciuti simpatia e rispetto, ecco uno che sapeva fare l’uomo.» (Storia del nuovo cognome, p.45) Tutto questo sembra andare contro ogni regola che il movimento femminista attuale promuove, il romanzo appartiene a un mondo brutale, che sembra lontano dai nostri giorni, quando in realtà stiamo parlando di cinquant’anni fa. Il romanzo non può essere etichettato come femminista, anche se il punto di vista femminile di Elena può trarre in inganno. Credo più che Ferrante voglia far emergere anche temi femministi, del resto era impossibile evitarli nel clima politico descritto, in particolare nel terzo volume: gli anni ’70 e le rivolte sociali.
Agli antipodi del maschio del rione abbiamo Alfonso, omosessuale che rifugge quella mascolinità tossica dalla quale non riesce comunque ad uscire, oppure Enzo, l’unico che, forse per un voler lasciare un briciolo di fiducia nel genere maschile, Ferrante lascia umano. Questi due personaggi sembrano riuscire a evadere dal clima rionale, e solo grazie all’allontanamento da quel luogo riescono ad abbandonare le sue leggi.

Dall’altra parte le donne sono prosciugate dal ruolo sociale di madre, di cui si rende conto Elena nel secondo volume:

«Senza una ragione evidente, cominciai a guardare con attenzione le donne lungo lo stradone. […] Erano nervose, erano acquiescenti. Tacevano a labbra strette e spalle curve o urlavano insulti terribili ai figli che le tormentavano. Si trascinavano magrissime, con gli occhi e le guance infossate, o con sederi larghi, caviglie gonfie, petti pesanti, le borse della spesa, i bambini piccoli che le tenevano per le gonne e che volevano essere presi in braccio. E, Dio santo, avevano dieci, al massimo vent’anni più di me. Tuttavia parevano aver perso i connotati femminili a cui noi ragazze tenevamo tanto e che evidenziavamo con gli abiti, col trucco. Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare, o per le fatiche o per l’arrivo della vecchiaia, della malattia.» (Storia del nuovo cognome, p.101-102)

Il ruolo di madre investirà entrambe le protagoniste, e rivelerà le difficoltà nei rapporti madri-figlie -femmine soprattutto – rendendo Elena, vincitrice nella vita, una madre poco presente, e Lila, improbabilmente, un’ottima madre per Tina. Ferrante si sofferma molto sui rapporti madre-figlia anche in altri romanzi (si pensi a L’amore molesto), come sempre facendo emergere i lati oscuri e morbosi del rapporto, fino ad arrivare alla punta massima di dolore per una madre: la perdita del proprio figlio.

Concludo ripescando il mistero sull’identità dell’autore accennato all’inizio. È solo un fuoco di paglia per me, è palese che l’autore voglia dare spazio alla letteratura e non alla personalità idolatrata, come succede troppo spesso nei libri su commissione, che vogliono puntare sull’io autoriale, miniaturizzando il mondo circostante, con lo scopo di vendere copie grazie alla fama del suo “autore”. Ferrante ha voluto attraversare la mente umana descrivendo le passioni più torbide, ciò che viene celato nelle amicizie, il ruolo sociale della donna e dell’uomo in quanto complementari opposti della specie umana, e il testo è riuscito a parlare benissimo da solo. Mi sembra quindi inutile continuare a focalizzarsi su chi sia lo scrittore, sullo scioglimento dello pseudonimo e sulla questione del genere.

Anche perché è ovvio che sia una donna.

Gloria Fiorentini

per altri articoli di Gloria Fiorentini riguardanti L’amica geniale Clicca qui

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