Dinamiche sul finis vitae
Tra diritto alla vita e responsabilità
Questo progetto nasce dalla mia partecipazione a un convegno universitario tenutosi nel settembre 2019 ad Arpino (FR) sul tema del finis vitae. Per ragioni di esaustività, data la complessità dell’argomento, si è pensato di dividerlo in quattro sezioni. La prima parte fungerà da introduzione al problema, illustrando l’approccio che intendo adottare nel corso di questo lavoro. La seconda sezione acquisisce un tono prettamente giurisprudenziale nell’affrontare la pensabilità della vita come diritto. La terza parte affronta la dinamica dell’etica della responsabilità, in particolare, ripercorrendo, tramite riferimenti all’opera di Derrida, le pagine di Donare la Morte. La quarta parte, si cimenta nell’offrire una demistificazione della nozione del dolore, offrendo una lettura del finis vitae come motivo critico della narrazione dominante. Non c’è pretesa di esaustività, tantomeno di univocità, bensì il solo auspicio che queste riflessioni possano essere occasione per ulteriori riflessioni e dibattiti.
Parte 1
Tre definizioni di vita
Parte 2
Il problema della vita come diritto
Sebbene la tradizione occidentale storicamente si sia fatta carico della missione morale di distribuire per il mondo intero valori etici e morali a sostegno della vita e dell’annientamento delle disuguaglianze, risulta piuttosto ingenuo il credere che un sistema di ordine capitalistico e basato esclusivamente sull’altrui sfruttamento, alla realtà dei fatti, sia coerente con le sue stesse premesse. È tutt’altro che raro, nell’attuale società, sentir parlare di diritti e di doveri che riguardano la condizione dell’essere umano. Tuttavia, sebbene ci sia la tendenza alla rivendicazione personale dei diritti (a discapito dei doveri), si sta progressivamente perdendo la percezione “corretta” di ciò che queste parole – diritto e dovere – designano realmente.
Appare, dunque, necessario, porre una definizione generale di ciò che significa diritto. In giurisprudenza, si hanno diverse forme di diritto, la prima delle quali – a mio parere, la più significativa per lo scopo di questo tema – recita:
si definisce diritto il complesso di norme imposte con provvedimenti espressi o vigenti per consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee (diritto oggettivo).
Una visione dominante vede una prevalenza del diritto oggettivo: secondo Hans Kelsen (Praga, 11 ottobre 1881 – Berkeley, 19 aprile 1973), il diritto si distingue dagli altri ordinamenti sociali in quanto è coercitivo. Questo momento risulta essere quello fondante dell’intero sistema e va, pertanto, applicato anche contro la volontà del destinatario, ricorrendo, laddove necessario, anche alla forza. L’ordinamento giuridico si delinea pertanto come un ordinamento della forza e il diritto si riduce ad una prescrizione posta in essere da un organo dello Stato, sorretta dalla forza propria di tale organo.
La forza lega dunque l’efficacia alla validità, pertanto solo un ordinamento efficace può essere qualificato come giuridico. Tale qualificazione influenza i cosiddetti diritti soggettivi o i diritti innati, cioè quelli che non hanno alcuna vigenza in assenza di diritto positivo. Tale prospettiva (propria del diritto oggettivo) si contrappone a quella del diritto soggettivo, che legge la libertà nel suo esercizio senza costrizione esterna. C’è la pretesa di un soggetto ad esigere da un altro soggetto l’osservanza di un dovere. Nell’idea di Kelsen il diritto soggettivo è un miraggio, dal momento che il suo esercizio presuppone un corrispondente dovere giuridico. In quest’ottica, il diritto soggettivo appare costituito dal dovere giuridico. In ogni caso, l’esercizio del diritto impone determinati doveri, tra i quali il dovere di non ingerenza in determinate sfere altrui – ciò significa che il diritto oggettivo giustifica, ed è giustificato, sempre dall’imposizione di un dovere agli altri soggetti. Tuttavia, il dovere altrui di non ingerenza non va scambiato con il diritto proprio del soggetto.
Nell’economia della Costituzione italiana, il tema del diritto alla vita non è mai affrontato in maniera esplicita, nel senso che non esiste un articolo che sia ad esso espressamente dedicato. In compenso, esistono passaggi che riguardano in maniera significativa una serie di diritti che possono essere riconducibili al diritto alla vita: il diritto alla libertà personale, alla inviolabilità del domicilio, alla segretezza della corrispondenza; il diritto di circolare liberamente; il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi; il diritto di associarsi liberamente, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa; il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, il diritto di agire in giudizio, il diritto di votare, ecc.
Al di fuori della Carta costituzionale, la legislazione italiana ordinaria prevede norme che tutelano la vita e la sua integrità: si fa riferimento, in particolar modo, al Codice Penale, il quale, come si vedrà, punisce il delitto di omicidio, all’articolo 575, e i reati di istigazione e aiuto al suicidio, in sede dell’articolo 580 – ai fini di questo lavoro, sarà prestata attenzione proprio a quest’ultimo.
Esistono, inoltre, una serie di documenti internazionali che fungono da principi ispiratori per l’istituzione e l’applicazione delle norme nelle singole legislature. Si sta facendo riferimento principalmente alla Carta dei diritti universali dell’uomo del 1948, al cui Articolo 3 è recitato che «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona». Altra fonte nella quale è possibile rintracciare una norma che tuteli i diritti dell’uomo è presentata dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, specialmente in sede all’Articolo 6, dove si esplicita: «Il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve essere protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita».
Tutti gli articoli qui citati conducono imprescindibilmente a un riconoscimento di determinati diritti considerati innati. Tuttavia, il problema consiste propriamente nel fatto che essi sono assimilabili a un’etica astratta e, di conseguenza, non hanno nulla a che fare con l’ordinamento giuridico. Solo il diritto positivo può rendere effettivi tali principi limitando i comportamenti considerati lesivi di questi “diritti innati”. In questo senso, la libertà appare solo come conseguenza della costrizione.
Si prenda ora, come preannunciato sopra, in esame il testo dell’Articolo 580, il quale recita:
Chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima [c.p. 29, 32, 50, 583].
Le pene sono aumentate [c.p. 64] se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio [c.p.p. 575, 576, 577].
La lettura di questo passaggio palesa esclusivamente una pratica enumerazione degli anni di carcere, dunque alla descrizione della pena, a cui la singola persona che, dopo previa indagine, è attestato esser coinvolta in vari gradi nel caso di un suicidio o tentato suicidio è condannata.
È evidente che l’oggetto della punizione consiste nella determinazione in altri di un istinto prima inesistente o il rafforzamento di un piano preesistente di suicidio. Si evince, già da una lettura rapida, anche il fatto che, in questi termini, le condizioni dettate dall’enunciato dell’articolo risultano estremamente ampie e generali, il che apre a forme molteplici di interpretazione. Si osserva che la norma penale non è sufficientemente tipica dal momento che il bene giuridico che tutela è inconsistente; ciò la rende vulnerabile ad un attacco costituzionale.
Inoltre, appare d’uopo soffermarsi sulla considerazione della vita che presuppone questo articolo, la quale è intesa come un bene personale di cui lo Stato si fa garante. Posta in questi termini, tale bene deve essere sempre tutelato a tutti gli effetti e ad ogni costo, come se questo fosse un qualcosa di materiale. Si presuppone quindi, anche se implicitamente, la presentificazione di qualcosa che, lo si è detto prima, è un concetto estremamente duttile e, soprattutto, inconsistente. Ma se si accetta l’ipotesi che la vita sia l’attributo più intimo e proprio che si possiede, depurando, dunque, tale concetto dalle significazioni prima esplicitate, si è giustificati ad affermare che il titolo decisionale ultimo in merito ad essa spetterebbe esclusivamente al proprietario. Una lettura della vita come bene, dunque come proprietà privata, suggerisce da un lato che debba esserci un titolare, dall’altro che non ci sia una realtà sovrastrutturale che imponga delle regole sul suo impiego. In un certo senso, ci si sta orientando verso la considerazione della vita come un bene indisponibile, dal momento che lo Stato se ne fa garante e mandante.
Il considerare che non sia possibile usufruire della propria vita a piacimento, dal momento che esiste un sistema penale a cui si va in contro qualora non si dovesse rispettare la legge, mette in evidenza una frattura, una distanza, tra individuo e Stato. Pertanto, la lettura dell’Articolo 580 del Codice Penale, alla luce di queste condizioni, costituisce una discontinuità concettuale: di fatto, è generato un primato della volontà dello Stato su quella del singolo che non sarebbe considerato capace di intendere e di volere. Pertanto, si assiste all’atto di limitazione della libertà proprio da parte di quell’ente incaricato di tutelarla. La persona, o meglio la volontà personale, perde di significato al cospetto di un super-organismo che ne annichilisce le possibilità.
Inoltre, si potrebbe avanzare anche l’interpretazione secondo cui lo Stato si fa anche mandante della vita stessa, avvalorando la lettura della vita non solo come un vero e proprio possesso, ma anche come un qualcosa che è dato in previsione di un mero usufrutto, di cui però sono già date le dovute limitazioni dalla legge stessa. Non essendo dunque un qualcosa che si ha di connaturato e di innato, la vita non è altro che una delle dotazioni garantite all’uomo e che questi ha l’unica possibilità di realizzarla nei limiti della legge, quindi secondo un modello preconfezionato sempre dal mandante.
In questo senso, parlare di libertà individuale perde completamente di senso: persino l’interpretazione religiosa della vita come dono che si realizza nel libero arbitrio consente una visione più libera dell’azione individuale, sempre e comunque vissuta con lo scacco morale imposto dalla vita eterna.
Obiettare le tesi secondo cui lo Stato si contraddice con sé stesso – cioè che vieta ciò di cui è stato fatto (e si fa) garante – e che la vita è considerata come merce, con il classico motto kantiano della libertà personale finisce e comincia laddove c’è l’altrui, risulta quanto mai inappropriato in una discussione che riguarda il suicidio. Sui-cidio, ovvero “omicidio di sé stesso”, dunque un atto che si riflette esclusivamente sulla propria persona, pertanto l’unica che si potrebbe ritenere responsabile dell’azione.
A questo punto, è ormai palese che il problema legato al suicidio non è tanto il suicidio stesso, quanto le azioni che lo comportano e l’eventuale partecipazione di soggetti terzi – l’Articolo 580 è molto chiaro a riguardo. Non è possibile in questa sede sindacare su questa enorme lacuna morale, anche perché in fin dei conti, non essendoci una morale universale, non è possibile costruire un ordinamento giuridico che vi si ispiri. Tuttavia. va detto che l’oggetto dell’Articolo sfugge al fatto che una persona si sta togliendo la vita. Sembra che questo atto estremo sia una semplice eventualità, quando, in realtà, lo si vedrà successivamente, è un momento critico che pone in essere la rottura e il fallimento di un sistema.
Alla luce di ciò, è opportuno domandarsi se la vita sia, a questo punto, effettivamente un diritto: il considerarla come merce, impone, lo si è detto, una serie di considerazioni che non possono corrispondere alla definizione di un diritto. In questo senso, dunque, parlare di diritto alla vita risulta quanto mai contraddittorio, dal momento che si mettono in evidenza due istanze che non sono conciliabili: da una parte, proprio per quanto detto precedentemente, il diritto alla vita rientra nella sfera del diritto soggettivo, dunque non è, non può essere, oggetto di un ordine giuridico; dall’altra, invece, mercificare la vita fa di quest’ultima una proprietà privata a tutti gli effetti, dunque oggetto di altra forma di diritto.
Questa tesi, che di fatto fa del diritto alla vita una aporia, svuota il costrutto linguistico di diritto alla vita, rendendolo privo di un contenuto vero e proprio. In un certo qual modo, si sta manifestando un’inconsistenza doppia, dal momento che, lo si è detto prima, la vita stessa è un concetto inconsistente – dunque si sta parlando dell’inconsistenza dell’inconsistente. Seguendo questo ragionamento, è possibile, dunque, considerare il diritto alla vita come archetipo di qualsivoglia forma di diritto, dal momento che ispira tutti gli altri, ma in realtà non è il contenuto vero e proprio di nessuno di questi.
Parte 3
Responsabilità e segreto
Parte 4
Demistificazione del dolore
https://lincendiario.com/tag/dinamiche-sul-finis-vitae/ di Lorenzo Valerio
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