Capitolo 1: Profumo
Capitolo 2: Magma
Capitolo 4: Cemento
I tamburi stanno suonando. È una marcia, sotto il cielo rosa che si sta spegnendo. Cammino, e i miei piedi chiedono aiuto. Sono stati graffiati dai cocci di vetro sulla sabbia. Urlano acqua, acqua pulita, che può pulire quella pelle dallo sporco, dal lurido. Anche le mie labbra urlano acqua. Sembra quasi che non le abbia per quanto sono rovinate. Sono le labbra di una persona malata, affamata. Di una persona povera. Labbra di una persona sola, che hanno bisogno di un bacio d’amore, che hanno bisogno di baciare di amore. “Pam, pam, pam” canto con le mie labbra il suono dei tamburi. Non si fermano, scattano, e il cuore sussulta, sta sussultando. Sollevo il capo, con fare veloce, distratto, e alzo lo sguardo, verso l’hotel abbandonato, dove dormo ogni notte, io sono dall’altro lato della strada, macchine corrono veloci. L’hotel sembra colorato da un bambino con i pastelli, giallo ocra, firmato da un graffito di un ragazzo di strada. Filo spinato è aggrappato al cancello arrugginito. Buste di plastiche nere coprono le finestre che si aprono sulle pareti. Un palazzo scordato, un tamburo lasciato in un angolo, che ha dato suono per tutta la vita, e poi ne è rimasto senza. I suonatori l’hanno sfruttato, per poi scordarsene.
Le macchine si incrociano, sfrecciano scontrose, per la strada che separa me e quel palazzo scordato. Sto attraversando goffamente, le cianfrusaglie che vendo in spiaggia in un braccio, e il marsupio geloso dei soldi nell’altro. Una macchina rossa non mi ha visto, sta continuando a correre, spezza il cemento. I tamburi suonano più forte, il suono mi fa vibrare la testa, colpiscono il cervello. Non si ferma, mi sta per investire. Poi frena, bruscamente. Resetto la mente e tiro un sospiro di sollievo. Un clacson mi rompe i timpani, “Spostati, marocchino di merda”, mi sgrida un ragazzino, dai capelli ossigenati e dagli occhiali firmati. Un ragazzino a cui i genitori hanno regalato prima la macchina e poi il triciclo. “Spostati”, continua ad intimidirmi, e cerco di raccogliere le cianfrusaglie dalla strada.
Io mi vergogno. Mi vergogno di essere quel marocchino di merda. Mi vergogno di essere annullato, che il mio io, la mia famiglia, i miei studi, i miei interessi, i miei sacrifici, i miei viaggi, i miei difetti, il mio essere persona sia stato annullato da un movimento razzista di censura negra. Che io, come uomo, sia banalizzato ad un marrocchino di merda, ignorante e inferiore, che vende cianfrusaglie in spiaggia. Mi vergogno che il mio diritto, la mia voce, siano stati silenziati da una banale offesa identitaria. Ora è il silenzio, e i tamburi non suonano più. Ora sento il suono del mare, lontano, che scoppia in schiuma ed onda, accordato dalla forza del vento. Scoppia il ricordo, in quel barcone siamo in troppi. Si riempie di acqua salata, il cielo suona di tuoni. Barcolliamo, qualcuno si abbraccia, chiedendosi di aver fatto la scelta giusta. Prega la fortuna, che stavolta non sia avversa contro chi non è bianco. Ma qualcuno non è fortunato, non riesce a tenersi, scivola via. Affonda e sale su, dove c’è il paradiso.
“Oh, ti vuoi togliere” continua ad urlare l’autista. I tamburi ricominciano suonare, raccolgo la mia roba, attraverso la strada, una marcia, mentre il ragazzo bestemmia e mi insulta, imprecazioni insignificanti, messaggio di mediocrità e di piccolezza, l’ignoranza per cui si dovrebbe essere davvero discriminati.
Sono al cancello dell’hotel abbandonato, devo scavalcare, stando attento al filo spinato. Sento meglio il rumore dei tamburi. E mi sorprendo, anzi, inizio proprio a ridere. I battiti del cuore sembrano veramente dei tamburi che battono una marcia. Un cuore di gomma che rimbalza nel petto, e scoppia di sangue, in tutto il corpo. Un cuore elastico, che fa saltare tutti gli altri organi, che mi fa saltare. Mi pulsa in petto e me lo dice, che non sono un Marocchino di merda. Sono un essere umano, uguale a te, che si muove, che pensa, che scoppia come un tamburo. Ho un cuore elastico, come un tamburo. E mi sento un essere umano.
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